Cibo, cultura e celiachia

Chi non ha avuto modo di “conoscere” Omero, l’Odissea, e il suo celeberrimo protagonista, Ulisse? Tutti noi lo ricordiamo come simbolo di quella particolare inclinazione della mentalità greca che tanto esaltava la curiositas, l’intraprendenza, l’ingegno umano. Ulisse rappresenta lo spirito avventuriero che abita in ogni uomo, che non soccombe alle sfide della vita e che, anzi, è per natura avido di nuove esperienze, assetato di conoscenza,  sempre pronto ad avventurarsi in terre inesplorate e a misurarsi con usi e costumi di popoli lontani.

Ma cosa c’entra tutto questo con la celiachia e con l’alimentazione senza glutine?

Ebbene, già l’Odissea sottolineava implicitamente il valore culturale, simbolico e sociale che il cibo e le abitudini alimentari rivestono per le comunità umane. Durante il suo lungo viaggio, Ulisse si mostra sempre sensibile alle pratiche alimentari dei popoli in cui si imbatte, attribuendo al cibo il tratto identificativo principale di ogni comunità umana. Nel IX Libro, in particolare, Ulisse è protagonista, con i suoi compagni, dell’incontro-scontro tra due popoli con culture alimentari differenti: Lotofagi versus Sitofagi.

Come lascia intuire già il nome stesso, la cifra identitaria della comunità dei Lotofagi risiede nel loro regime alimentare: sono definiti “mangiatori di loto”, proprio a voler sottolineare una valenza oppositiva rispetto ai greci, connotati invece come “mangiatori di grano”, Sitofagi.
Al di là dell’accoglienza bendisposta e cordiale dei Lotofagi nei confronti dei greci, l’incontro-scontro tra queste due etnie mostra come il cibo sia sentito da sempre come traccia di un perimetro, come pietra miliare che scandisce e custodisce lo spazio privato delle comunità. L’incontro-scontro fra le due etnie può essere assunto come punto di partenza per riflettere sul tipo di relazione che intercorre oggi tra il mondo dei celiaci (con loro dieta senza glutine) e il mondo dei “Sitofagi”, quest’ultimo spesso poco attento alle pratiche dell’accoglienza e dell’ospitalità nei confronti del primo.
Ciò su cui vale la pena riflettere è l’idea di quanto sia importante, nella vita di ciascuno di noi, riconoscersi ed essere riconosciuti come membri di un gruppo, di una precisa cultura, anche culinaria.

 

In Italia, dove l’alimentazione è basata essenzialmente sul grano, essere affetti da celiachia rappresenta una difficoltà notevole poiché essa, come sappiamo, richiede irrinunciabilmente l’esclusione di determinati alimenti.

I cambiamenti che la dieta senza glutine apporta nella vita delle persone celiache, quindi, non riguardano solo il piano strettamente alimentare, ma anche la sfera sociale (che entra in gioco nella condivisione dei pasti, nell’alimentazione fuori casa, nell’esigenza di una maggiore attenzione nei diversi contesti sociali: famiglia, scuola, relazioni amicali e professionali, luoghi di ristoro, ecc).
Nonostante le importanti scoperte medico-scientifiche in tema di celiachia, soltanto negli ultimi anni le scienze umane hanno focalizzato i loro studi sulle possibili problematiche psicologiche e socio-relazionali che la diagnosi di celiachia, e la dieta senza glutine, possono introdurre nella vita del bambino celiaco.
Innanzitutto, occorre tenere presente che lo sviluppo di un bambino è caratterizzato da due importanti processi: la socializzazione e l’individualizzazione. La prima riguarda i processi attraverso cui il bambino s’inserisce all’interno della propria comunità, apprendendo valori, abitudini, stili relazionali, che, una volta interiorizzati, lo condurranno a sviluppare il senso della “membership”, ovvero dell’appartenenza ad un gruppo.
L’individualizzazione, invece, riguarda quei processi di differenziazione dall’altro, di identificazione del Sé, attraverso i quali il bambino acquisisce una propria specifica ed unica identità.

Considerando che il cibo scandisce la giornata di ognuno di noi, nel percorso di sviluppo di un bambino/ragazzo celiaco entrambi i processi assumono delle sfumature specifiche. Anche la semplice condivisione di un pasto fuori casa potrebbe diventare un piccolo ostacolo, soprattutto all’inizio: il bambino si trova costretto a dover rifiutare il cibo glutinoso, a dover prendere consapevolezza con il rischio della contaminazione alimentare; è chiamato a dare spiegazioni agli amici/compagni, sperimentando imbarazzo e malumore, deve preoccuparsi di  trovare dei locali sicuri, e via dicendo.

La psicologa Cavanna utilizza il termine embodiment a voler indicare come l’atto di assunzione del cibo significhi non solo incorporare l’alimento, ma anche accettarne i suoi contenuti simbolici, affettivi e culturali.
Ancora Cavanna definisce il cibo come sostanza liminale, in quanto le scelte relative al mangiare o rifiutare un certo alimento, alle sue quantità, alle modalità di consumo o di preparazione, sono processi individuali che tuttavia ci permettono, nello stesso tempo, di accettare/rifiutare il nostro status di membri di una particolare comunità. È proprio nella condivisione del cibo, momento essenziale per la creazione di reti di parentela e amicali, che il bambino celiaco si renderà conto della sua differenza rispetto al gruppo di appartenenza, poiché sarà costretto a mangiare alimenti differenti rispetto a quelli dei suoi coetanei; lui e la sua famiglia dovranno non solo interiorizzare questa nuova condizione che durerà “per tutta la vita”, ma anche affrontare le barriere implicite poste dalla società.

Il bambino celiaco sarà impegnato su un triplice piano:

  • apprendere ed acquisire la cultura alimentare condivisa dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza;
  • apprendere strategie/comportamenti di sviamento del “nemico” glutine;
  • confrontarsi con i suoi coetanei in merito alla propria “diversità”.

Interessante è il contributo del prof. Zangrilli, il quale condivide gli studi secondo cui il sistema nervoso enterico (che governa le funzioni fondamentali dell’apparato digerente) produce nel neonato riflessi che gli permettono di espletare le attività di prendere e mangiare:  il bambino che afferra qualcosa, portandola alla bocca, se ne nutre, placando così la fame. Nel caso di un bambino celiaco, se il suo impulso ad afferrare ed ingerire un biscotto “glutinoso” viene giustamente bloccato da parte del genitore, si genererà nel bambino un desiderio inibito, in attesa di essere soddisfatto. Il soggetto celiaco,così, è chiamato pian piano ad adeguarsi a rinunce alimentari e a sostituzioni imposte. Di norma il bambino non opporrà particolari resistenze, dato il suo passivo adeguarsi alla simbiosi madre-figlio e alle sue regole alimentari. Tuttavia, secondo l’autore, il desiderio inconscio di mangiare un determinato alimento che gli è stato proibito in precedenza diventerà frustrante e difficilmente placabile nell’età scolare e ancor più in adolescenza.

Ma allora un genitore (o un insegnante, un educatore, o altra figura di riferimento) come può supportare il proprio figlio e scongiurare che, una volta divenuto “grandicello”, possa correre dei rischi? Le accortezze da tenere presenti sono poche, ma fondamentali:

conoscere i possibili rischi, imparando a gestirli in maniera consapevole ma serena;

prevenire. La prevenzione di eventuali “disagi” nel ragazzo celiaco parte dal non trattare la sua condizione come un tabù. Occorre parlare con serenità e disinvoltura della celiachia e della dieta senza glutine, sia in famiglia che altrove, evitando però di dare una risonanza esagerata e onnipervasiva all’argomento e di sottolineare in maniera martellante la condizione del bambino. Così facendo, infatti,  il bambino potrebbe sentirsi identificato, da parte degli altri, non come persona ma, riduttivamente, solo come “individuo affetto da celiachia”;

– incoraggiare l’organizzazione di piacevoli circostanze di socialità e convivialità in cui condividere con i pari la propria “diversità” (menù per tutti gluten free o menù diversificati ma stesse pietanze);

– far esperire ai ragazzi un certo grado di autonomia nella gestione della loro dieta, di modo che possano responsabilizzarsi, e perché no, commettere degli errori e correggersi;

gratificare i più piccoli, soprattutto all’inizio, quando riescono a raggiungere un buon grado di autonomia.

La sfida che siamo chiamati ad accogliere  è dunque legata non soltanto alla nutrizione, ma anche alla cultura del cibo e dell’alimentazione. La dieta senza glutine non è una realtà culinaria completamente avulsa dalla nostra cucina “tradizionale” (se ancora oggi possiamo chiamarla così) ma necessita di importanti accortezze che possono diventare semplici abitudini. Imparare a conviverci pacificamente, inoltre, significa imparare anche a considerarla come un’occasione di riscoperta di  antichi prodotti e sapori per decenni dimenticati o rimasti di nicchia (basti pensare al grano saraceno, alla quinoa, al sorgo, ecc).

Cibo, cultura e celiachia- Gluten Free Travel and living
Logo Festival delle Gatronomie

 

Le società multiculturali ci stanno abituando ormai da decenni a fare i conti con la diversità, a considerare le divergenze culturali come una ricchezza. Se è vero, come è vero, che la cultura è anche cultura alimentare, non è auspicabile insegnare la tolleranza reciproca (atteggiamento di passività che continuerebbe a relegare ognuno entro i propri confini identitari) bensì l’accoglienza reciproca. La “comunità celiaca” ha, come ogni comunità, regole e procedure che vanno seguite per il bene dei propri “membri”, ma è situata all’interno di comunità ben più vaste (le società umane), dalle quali deve pretendere rispetto, considerazione e diritto di  cittadinanza.

Del resto, la “contaminazione” fra le comunità non deve necessariamente passare per il glutine!

 

 

Bibliografia

Lavanco G., Novara C., Elementi di Psicologia di comunità.  Milano, MacGraw-Hill (2012)

Cavanna D., Stagi L.. Sul fronte del cibo. Corpo, controllo, Soggettività. Milano, FrancoAngeli (2009)

Costantino D., Contaminazioni. Studi sull’Intercultura. Milano, FrancoAngeli (2007)

Zangrilli: http://www.psicoanalisi.it/psicosomatica/1312#.VPyYynyG_5M

Ha collaborato: ROSSELLA FAILLA

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